Apuleio modello di Boccaccio
Lezione multimediale un po’ particolare quella del prossimo sabato 7 ottobre 2017: darà l’occasione per la lettura di un riassunto della favola di Amore e Psiche corredata da qualche effetto speciale. Ecco due note introduttive sul rapporto tra Le Metamorfosi di Apuleio e il Decameron di Boccaccio.
Secondo Vittore Branca[1], Boccaccio sentì Apuleio “come un suo precursore, l’unico autore della letteratura greca e latina che avesse prestato orecchie alle narrazioni del popolo e le avesse ritenute degne di una consacrazione letteraria”.
Apuleio effettivamente si sentì debitore alla tradizione della fabula Milesia, più volte ricordata nella sua opera e particolarmente sottolineata nell’introduzione. La fabula Milesia era un genere di narrativa popolare, dai sapori forti e dai contenuti spesso ai limiti della decenza; potrebbe essere assimilata alle nostre storielle divertenti, con le quali alcuni narratori riescono ad avvincere l’uditorio facendolo ridere.
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Maratona 2017
Una visita a Maratona
Per un amante della cultura greca una visita a Maratona, la piana del “finocchio selvatico”, è un incontro ravvicinato speciale: significa andare mettere il piede sul suolo che fu teatro di una battaglia epica, che vide la vittoria di un piccolo esercito sull’esercito dei Persiani, i grandi temibili e potenti vicini, che volevano punire quei Greci ribelli che avevano osato sfidare la Persia. Solo i Plateesi erano a fianco degli Ateniesi ad affrontare le preponderanti forze nemiche. Gli Spartani erano assenti, in attesa del plenilunio (forse si erano defilati).
Così Erodoto riassume l’esito della battaglia:
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Un Quintiliano che non ti aspetti
Proemium Institutionis Oratoriae libri VI inter locos qui saepe leguntur non est. Immo forsitan Quintilianus omnino iam non legitur. In prisca Schola Magistrali loci de paedagogia legebantur, optimi quidem non solum argumentis sed etiam moribus. Quasdam paginas grammaticales difficiles etiam rhetoricae artis amantibus nemo legebat. Proemium libri VI est locus dignus qui bis legatur: pagina est humanitate pulcherrima.
Clarissimus ille magnus rhetoricae artis pretiosissimus professor Quintilianus graviter denuo fortuna adversa vulneratus est. Iam amatam mulierem, iam primum filium amiserat.
Quot mulieres in antiqua Roma frustra Iunonem Lucinam invocantes moriebantur! Plurimae partu tenera adhuc aetate! Itemque quot pueri!
At consuetudo avita, forsitan in hereditatem a saeculo praeterito accepta, nos coegit ut praesertim verteremus locos Caesarianos de militibus castris copiis narrantes. Itaque perrare in scholis nostris de vita Romana legimus; tunc amores similes nostrorum, affectus familiares quos etiam nunc sentimus legissemus.
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La napoletanità di Stazio
Alla sesta lezione del corso di Letteratura e lingua latina abbiamo parlato di Stazio, l’autore noto per la Tebaide, grande poema epico mitologico, che lo ha consacrato alla fama, anche grazie al XXI canto del Purgatorio dantesco di cui è protagonista.
Abbiamo poche notizie della vita di Publio Papinio Stazio, vissuto nella seconda metà del secolo I d.C.: era nato a Napoli, aveva un padre letterato, la sua arte lo aveva portato a Roma, dove aveva raggiunto grande fama nelle letture pubbliche e nelle gare poetiche. Lo immaginiamo mentre conquista gli uditori con la sua retorica incline a suscitare orrore; mi piace immaginarlo mentre recita il suo poema con la teatralità di un napoletano autentico, che ti conquista con il suo senso innato per la drammatizzazione e la capacità di coinvolgimento.
Fantasia di un appassionato di letteratura classica? forse, ma mi piace proporre alcuni versi tratti dalle Silvae e un commento di un grande latinista.
La poesia che propongo fu composta forse dopo la mancata vittoria nei Ludi Capitolini, per persuadere la moglie a trasferirsi a Napoli, la sua indimenticata città natale.
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Recte Lucretius sentiebat
Hodie magno cum gaudio nuntium hoc accepimus: alter sol, aliae terrae similes in vicino spatio exsistunt. Sic Epicurus abhinc viginti quattuor saecula sentiebat et sic canebat Lucretius in De Rerum Natura (II, 1048-1089). Infra Lucretii versus legi possunt, brevi praefatione addita.
Praefatio
Nella parte conclusiva del secondo libro il poeta affronta un punto fondamentale della speculazione filosofica e di grande attualità anche oggi: il nostro è l'unico mondo esistente nell'universo? Grandi filosofi (Platone, Aristotele) avevano risposto di sì, basando la loro convinzione sull'opera di una divinità e postulando, insieme ad una visione antropocentrica, l'immortalità del mondo. Lucrezio invita il lettore ad usare la ragione e a seguirlo nella sua argomentazione.
Dato che lo spazio e la materia sono infiniti non è ragionevole pensare che il nostro sia l'unico mondo possibile: infiniti mondi come il nostro possono essere formati dal casuale aggregarsi degli atomi. A dimostrazione della sua tesi il poeta presenta tre argomenti, che serviranno a dimostrare l'estraneità degli dèi alle vicende umane e che il nostro mondo, come ogni cosa nell'universo, è destinato a morire.
Principio nobis in cunctas undique partis
et latere ex utroque <supra> subterque per omne
nulla est finis; uti docui, res ipsaque per se
vociferatur, et elucet natura profundi.
Nullo iam pacto veri simile esse putandumst,
undique cum vorsum spatium vacet infinitum
seminaque innumero numero summaque profunda
multimodis volitent aeterno percita motu,
hunc unum terrarum orbem caelumque creatum,
nil agere illa foris tot corpora materiai;
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