Il problema delle elisioni

Resta un ultimo e spinoso problema, che è costituito dall’uso di praticare all’interno dei versi l’elisione, un’usanza che non ha nessun fondamento tecnico, ma viene considerata come corretta, per motivi incomprensibili, considerata la deformazione che produce dei versi latini. Basta un po’ di indagine critica e si finisce per scoprire che esistono presupposti storici e linguistici di notevole attendibilità e logicità, tali da permettere una diversa lettura dei testi latini, sicuramente ancora piena di difetti, ma con almeno un miglioramento, costituito dall’accantonamento di questa impostazione scorretta.

Per elisione si intende quel fenomeno costituito dall’eliminazione della sillaba finale di una parola terminante in vocale (o vocale + “m”) seguita da altra parola iniziante in vocale.

Per esempio il verso:   Conticuere omnes intentique ora tenebant (Verg. Aen. II, 1)

Si deve leggere:          cónticuéromnés inténtiquóratenébant

Oppure il verso:          verum haec tantum alias inter caput extulit urbes (Verg. Buc.I, 24)

Si deve leggere:          vérectántaliásintér caputéxtuliturbes

Probabilmente fin qui niente (o quasi) di male, ma il celebre distico catulliano:

                                   Odi et amo quare id faciam fortasse requiris

                                      Nescio sed fieri sentio et excrucior

diventa:                      Ódetamó quarídfaciám fortásse requíris

                                      Nésciosédfierí sénzietéxcruciór

Cioè le parole catulliane, meditate e sofferte sia sul piano dell’elaborazione compositiva sia sul piano del conflitto di sentimenti, vengono come macinate in nome di una volontà ragionieristica di far quadrare i conti, o meglio gli schemi metrici di computo delle sillabe: si può affermare che la misura dell’esametro è mantenuta solo se i+e, e+i e o+e danno luogo ad una sillaba unica. Rimangono tuttavia almeno due dubbi: le parole del poeta sono ancora comprensibili? che fine fanno i sentimenti espressi ed avvertiti (per fortuna ancora) dagli appassionati di poesia catulliana?

Ci si trova in realtà davanti ad un equivoco di notevole portata, che consiste nel confondere il fenomeno dell’annullamento prosodico, che consente al verso di mantenere la giusta misura, con un annullamento fisico.

Sappiamo che “la sillaba collidente con vocale non veniva in realtà elisa, ma restava sensibile, come attestano Cicerone e Quintiliano” (Lechantin de Gubernatis) e che è una “concezione inesatta” quella di elidere il suono della vocale (anche seguita da “m”) di fine parola, ed il Traina definisce questo un “tipo di lettura assolutamente da respingere”.

Proviamo a prendere in considerazione la poesia italiana per vedere se questo procedimento può trovare qualche giustificazione logica.

In italiano la condizione necessaria perché un verso abbia una data misura è che le sillabe siano in numero preciso e costante, cioè un verso endecasillabo sarà tale quando conterrà 11 sillabe (si intende con ultima parola piana). Sono ammesse sillabe in numero superiore purché avvenga la “fusione”, in altre parole l’annullamento prosodico tra sillabe finali di parola terminante in vocale con sillaba seguente di parola iniziante in vocale.

Per esempio nel verso dantesco “mi ritrovai per una selva oscura” il computo delle sillabe passa da 12 a 11 solo se si considera un’unità la sillaba costituita da “va” e “o” rispettivamente fine ed inizio delle parole “selva” e “oscura”. Osserviamo però che nessuno legge “selvoscura”, ma, pur percependo la debolezza della vocale “a”, pronuncia in modo sensibile le due vocali “a” ed “o”. Quando si contano le sillabe si possono fondere le due parole per far comprendere ad altri questo annullamento prosodico, ma quando si legge o si ascoltano i suoni vocalici i suoni si pronunciano e si percepiscono. Questo fenomeno avviene anche se in questo verso dantesco la vocale finale di parola “a” non è indispensabile per capire la funzione logica della desinenza perché in italiano la desinenza non ha la fondamentale importanza che ha in latino.

Eppure nella tradizione scolastica (un po’ conservatrice tendenzialmente) un verso come il seguente:

                        Monstrum horrendum, informe, ingens, cui lumen ademptum (Verg. Aen. III, 658)

si legge:           mónstrorréndinfórmingéns cuilúmenadémptum

Il Traina afferma che “nessuno penserebbe di leggere allo stesso modo questo verso italiano: Di quel vag’avvenir ch’in ment’avevi” , dove pure la situazione fonosintattica è la stessa”.

Ricapitolando: molti studiosi hanno dimostrato che è errato elidere i suoni delle parole, perché il fenomeno che si verifica è quello della sinalefe (dal greco συναλοιφή = fusione), non quello dell’elisione; l’effetto di tale fenomeno è simile a quello della sinizesi o sineresi, nella quale si creano artificialmente dei dittonghi occasionali ascendenti, che permettono comunque di percepire il suono dell’elemento desinenziale, che in latino è importante per capire la funzione logica della parola e quindi il significato del verso.

Sembra dunque legittimo proporre, nella lettura dei testi, la lettura integrale delle parole, al fine di rendere il testo comprensibile e, nei limiti in cui questo è possibile, espressivo, applicando il principio “scriptio plena = pronuntiatio plena” secondo una terminologia efficace introdotta da L.E. Rossi per spiegare la natura della sinalefe. Non si tratta della “vera” lettura, si tratta di un modo di accantonare l’usanza di far corrispondere una lettura tecnica, usata per far capire il computo delle sillabe totali di un verso, con la lettura del testo. Con un po’ di coraggio, dopo aver eliminato questo uso improprio della lettura, si potranno affrontare altri problemi, quali il “suono” della “m” finale e quello della prodelisione che riguarda il “suono” delle voci es ed est, o quello, ancora più grande, dell’uso di una pronuncia del tutto diversa.