Ultime considerazioni sui traduttori e sulle traduzioni delle opere poetiche di Alessandro Manzoni.[1] 

Ha senso tutto questo furore traduttivo esercitato applicato alle opere di uno dei padri della lingua italiana?

Il traduttore degli Inni Sacri era avvantaggiato dall’argomento in sé, perché, sul piano concettuale e lessicale, poteva contare su testi appartenenti a una lunga tradizione di autori latini cristiani.

Tradurre la poesia civile era più complesso; i traduttori del Cinque Maggio furono numerosi e diedero prova di grande tecnica usando metri anche rari o complessi. Molto meno numerosi furono i latinisti che si cimentarono nella versione di altri componimenti “laici”[2]. Il campo era nuovo, si era in pieno Risorgimento, dove dominavano temi, argomenti, parole di un mondo nuovo e diverso da quelli passati.

Bisogna essere cauti ed equilibrati prima di rispondere un perentorio NO alla domanda di partenza.

Le poesie manzoniane, soprattutto quelle politiche, circolavano con difficoltà in tempi in cui la censura austriaca cercava di tenere sotto controllo le aspirazioni degli intellettuali italiani. La produzione poetica in Italia era controllata e sottoposta a una preventiva revisione dei censori; per questo motivo le pubblicazioni delle opere politicamente più compromettenti venivano fatte all’estero[3]. Le versioni latine potevano circolare più liberamente anche per la loro diffusione limitata, ma non potevano dare che un modestissimo contributo alla diffusione degli ideali risorgimentali.

Le ragioni del NO prevalgono. La poesia di Manzoni ha un ritmo veloce, quasi di marcia, caratterizzato da rime cantabili. I versi latini, che non possono contare sulla rima, rischiano di “ingessare” lo scorrere fluido dei versi manzoniani, il lessico sembra come ingabbiato e il ritmo subisce una forzatura: le parole manzoniane delle odi politiche e delle tragedie, così ricche di tensione ideale, perdono vigore e non parlano all’uomo di quei tempi.

Curiosando tra gli esametri dell’unica versione di Marzo 1821, realizzata da Antonio Rota nel 1865, mi sono soffermato a leggere il celeberrimo augurio rivolto alla futura Italia unita:

 Testo italiano

Versione latina

Una gente che libera tutta

o fia serva tra l’Alpe ed il mare;

una d’arme, di lingua, d’altare,

di memorie, di sangue e di cuor.

Quae gens cuncta quidem ex Alpe ad geminum mare semper

libera seu serva, una est armis, sanguine, verbo,

tum rebus gestis, tum aris, tum cordibus una.

 

Illi qui latine vortit detur venia![4] Come si poteva tradurre in latino uno slogan piantato nel cuore, fieramente rivolto al futuro? Il metro manzoniano che va a ritmo di marcia si perde già nel primo esametro ipersillabico che entra nella misura solo grazie ad ardite sinalefi. Alcuni riempitivi banalmente retorici e parole inadeguate si colgono facilmente: l’inutile “quidem”, l’aggettivo di gusto alessandrino “geminum” riferito al mare, il debole “seu[5]”, le memorie ridotte a “rebus gestis” (azioni compiute), la triplice anafora di “tum” che svuota di efficacia la sententia.

La prospettiva universale in cui si collocava la storia di Napoleone aveva felicemente ispirato la fantasia dei traduttori, ma i temi civili e politici, l’argomento patriottico non avevano un chiaro riscontro nel repertorio della letteratura latina, né sul piano ritmico né su quello lessicale.

La grande distanza cronologica, ideale e linguistica è testimoniata dalle parole di uno dei traduttori tecnicamente più preparati, Angelo Bonuccelli (Camaiore 9 marzo 1777 – Firenze 5 marzo 1859). Nella lettera scritta da Urbino il primo aprile 1833 al “Signor Conte Alessandro Manzoni” per inviargli la versione latina de Il Cinque Maggio composta in metro alcaico[6], ammette “Ma quanto mi è costata!... la traduzione di Cento Sonetti dell’Arcadia mi sarebbe stata di minor peso!”.

Altrettanto significativa la risposta del Manzoni, datata 11 aprile 1833, in cui, a proposito della difficoltà riscontrata dal traduttore scrive: “dico francamente la difficoltà, ben sapendo che essa non nasceva già da alcuna buona qualità del componimento da Lei preso a tradurre, ma dall’essere i concetti di quella così lontani dalla lingua latina. Dei quali, come già di quei pellegrini senatori, ma con tutto altro intento, si può dire latum clavum sumpserunt[7]… 

Garbatamente il Manzoni in persona dice che la lingua latina è estranea ai contenuti della poesia contemporanea: non esistevano quelle idee e quindi non esistevano quelle parole, e glielo dice, signorilmente, in latino.

Restano ancora alcune doverose considerazioni sulle opere che Manzoni scrisse in latino, sono poche ma interessanti, degne di una quarta (e ultima) puntata.

Quarto capitolo

Sommerso da tutto il latino che gli veniva inviato, il Manzoni aveva risposto educatamente e puntualmente[8], come ci si poteva attendere da un gentiluomo come lui. Certamente conosceva il latino, nel corso della sua vita sappiamo che lesse costantemente i grandi classici[9] e lo conosciamo anche come autore di qualche verso[10]. Compose in tarda età l’unica poesia di una certa lunghezza che conosciamo, l’elegia Anates. Lo spunto gli fu offerto da una delle sue abituali passeggiate nei Giardini Pubblici di Porta Venezia. Sulle voliere popolate da uccelli in cattività erano passate in volo delle anatre libere. Manzoni pensò di dare la voce agli uccelli in gabbia, che provavano invidia per la libertà delle anatre.

Questa breve elegia fu pubblicata il 29 maggio 1868 nel giornale “La Perseveranza”, insieme a una replica delle anatre libere, 37 esametri composti dal genero G. B. Giorgini. Non era grande poesia e il primo a riconoscerlo sarebbe stato il Manzoni stesso. Il latino apparteneva alla sua vita privata: lo conosceva, lo leggeva, ma non era la sua lingua “ufficiale” né la sua preferita. Esprimeva in un italiano studiato, controllato e meditato le proprie idee e i propri ideali. Certamente non si sarebbe aspettato che anche i Promessi Sposi avrebbero ispirato i latinisti d’Italia.  Ecco la poesia manzoniana

 

ANATES

Fortunatae anates quibus aether ridet apertus,
libera in lato margine stagna patent!

Nos hic intexto concludunt retia ferro,
et superum prohibent invida tecta diem.

Cernimus, heu! frondes et non adeunda vireta
et queis misceri non datur alitibus.

Si quando immemores auris expandimus alas
tristibus a clathris penna repulsa cadit.

Nullos ver lusus dulcesve reducit amores,
nulli nos nidi, garrula turba, cient.

Pro latice irriguo, laeto pro murmure fontis,
exhibet ignavas alveus arctus aquas.

Crudeles escae, vestra dulcedine captae
ducimus aeternis otia carceribus!   

 

Traduzione in endecasillabi sciolti del poeta Anselmo Guerrieri (1868),

Fortunate le anatre, a cui il cielo sorride aperto,
e liberi stagni si estendono tra vaste sponde!

Trattengono noi qui reclusi reti di ferro intrecciato,
e tetti ostili ci negano la luce superna.

Guardiamo, ahimè, le fronde e il verde irraggiungibile,
e volgiamo lo sguardo agli uccelli, ai quali non ci è dato di aggregarci.

Se talvolta apriamo all’aria le ali immemori,
le penne cadono respinte dalle tristi sbarre.

Nessun diletto o dolci amori riporta la primavera,
nessun nido, una folla pigolante, ci invoca.

Invece di un ruscello che scorre, invece del lieto gorgogliare di una fonte
una piccola vasca fa mostra delle sue ignave acque.

Crudeli esche! Irretiti dalla vostra dolcezza,
trasciniamo il nostro tempo in eterni carceri!»

Testo critico e commento nel magnifico sito Manzoni Online alla pagina https://www.alessandromanzoni.org/opere/74

Fonte dell’immagine https://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-MC040-0000115/

 

[1] Il primo capitolo riguarda la versione in latino dei Promessi sposi si trova qui.

[2] La scena III dell’atto II dell’Adelchi, l’Urania e Marzo 1821 hanno avuto una sola versione.

[3] Il Cinque Maggio fu tradotta in tedesco nientemeno che da Goethe.

[4] “Sia perdonato chi tradusse in latino!” e il mio scrupolo di tradurre la frase.

[5] La disgiuntiva aut avrebbe meglio espresso l’antitesi libertà/schiavitù: non esiste una via di mezzo.

[6] Metro complesso, a lui però familiare. A 19 anni aveva sbalordito tutti componendo una poesia di nove strofe in metro alcaico improvvisando sul tema “Morte di Tito”.

[7] Il godibilissimo testo integrale della lettera si trova qui nel bellissimo portale dedicato al Manzoni https://www.alessandromanzoni.org/

[8] Tranne in un caso: Erifante Eritense (Soletti) rimproverò Manzoni per avere tardato a rispondere a una sua lettera. Si coglie nella risposta manzoniana un garbatissimo rammarico per questo “rimprovero”.

[9] Vedi Francesco Della Corte, Manzoni e il latino, Atti della Accademia ligure di Scienze e Lettere, XXX, 1974.

[10] Vedi Alexandri Manzoni scripta latina, a cura di Ida Corbellini e Johannes Carolus (Giancarlo) Rossi. In Latinitas, 2010.