Ovidio ad Arco (TN)

Che sul quadrante di una meridiana compaia una frase riguardante il passare del tempo non fa meraviglia; che sia in latino… nemmeno, perché è una lingua nobile, che induce alla riflessione. Trovare però un verso elegante e profondo succede di rado e la meraviglia cessa quando si scopre che il testo è di Ovidio.
Siamo ad Arco, a due passi dal lago di Garda. La chiesa è la più importante, si trova nel centro della città: è la Collegiata di Santa Maria (o dell’Assunta); la meridiana è collocata sulla parete dell’abside, grande e ben esposta al sole. Il verso è il 771 del VI libro dei Fasti[1], ha un tono “trentino”, severo, ruvido e realistico.  Eccolo:

Tempora labuntur tacitis senescimus annis
Il tempo scivola, invecchiamo in anni silenziosi

Il verso è un esametro che presenta accostamenti raffinati, si avverte il movimento veloce e sorprendente del tempo che “scivola” veloce, improvviso e inatteso (il verbo è labor, da cui deriva il lapsus) mentre gli anni passano senza farsi sentire, in silenzio (tacitis), e intanto invecchiamo, tutti (il verbo è infatti alla prima persona plurale). Bellissimo verso, perfetto per la funzione che deve ricoprire.
Nel quadrante di una meridiana non c’è spazio per altre parole, ma… come proseguiva la poesia?
Poiché i Fasti sono scritti in distici elegiaci (esametro + pentametro), bisogna anzitutto trovare il pentametro che completa la strofa; secondo Concetto Marchesi infatti “nei carmi elegiaci il pentametro succede all’esametro quale parte naturale e immediata di un medesimo organismo e il distico acquista con Ovidio la sua perfetta unità ritmica[2]”.
Questo è il primo distico, con cui inizia la breve elegia che il poeta dedica al giorno 24 di giugno[3], il giorno della celebrazione dei Fortunalia:

Tempora labuntur, tacitisque senescimus annis,
et fugiunt freno non remorante dies.

fuggono i giorni senza che un freno li rallenti.

Nel pentametro continua la metafora iniziale: c’è la fuga del tempo, un movimento deprecato suggerito dal verbo fugio (fuggire); spicca il non, collocato in evidenza al centro del verso, che sottolinea l’impossibilità di fermare l’ineluttabile trascorrere del tempo. Sul piano formale il poeta ricorre a figure retoriche tradizionali come l’allitterazione (la “f”) e l’antitesi. Andiamo ora a rileggere i quattordici versi dell’elegia.

Quam cito venerunt Fortunae Fortis honores!

post septem luces Iunius actus erit.

Ite, deam laeti Fortem celebrate, Quirites: 775  

in Tiberis ripa munera regis habet.

Pars pede, pars etiam celeri decurrite cumba,

nec pudeat potos inde redire domum.

Ferte coronatae iuvenum convivia, lintres,

multaque per medias vina bibantur aquas. 780 

Plebs colit hanc, quia qui posuit de plebe fuisse

fertur, et ex humili sceptra tulisse loco.

Convenit et servis, serva quia Tullius ortus

constituit dubiae templa propinqua deae.

Quanto in fretta son giunti gli onori della dea bendata!

 Tra sette giorni giugno sarà terminato.

Andate Quiriti, celebrate felici la dea Fortuna:

 sulla riva del Tevere lei ha le funzioni d’un re.

A piedi, anche in barca veloci accorrete

e non sia vergogna tornare a casa ubriachi.

Portate, o battelli, giovani coronati a banchetto,

si beva vino abbondante in mezzo alle acque.

La plebe venera lei, perché si dice la istituì uno

del popolo, che, da umile stato, uno scettro innalzò.

È una festa per servi, perché Tullio, nato da serva,

il tempio vicino fondò alla dea del caso.

Una poesia dignitosa, adatta a cantare una divinità popolare come la dea Fortuna, l’unica che poteva cambiare la vita degli uomini, soprattutto se di bassa condizione, adatta alla povera gente, che beve anche per dimenticare; di tono popolare sono il contrasto tra acqua e vino e l’invito a uno spensierato picnic sulla riva del fiume.

Il poeta non fa sfoggio di cultura (doctrina), ricorda con semplicità le prerogative della festa che celebra la Fors Fortuna, la dea Fortuna, alla cui festa secondo Varrone[4] era stato dedicato dal re Servio Tullio il giorno 24 giugno ed era stato fondato un tempio fuori città, sulla riva del Tevere.

Ovidio si conferma poeta sapiente e piacevole, ma qui i suoi versi non fluiscono liberi, si sente che il suo canto è ingabbiato. I distici sembrano solo accostati, lo sguardo è rivolto a valori passati, cercati più per dovere che sentiti come sorgente di ispirazione.

L’artista che ha realizzato la meridiana ha il merito di aver colto un verso ovidiano magnifico e di averlo proposto alla nostra riflessione; a lui rivolgiamo un grato pensiero.

 

[1] Il sesto libro dei Fasti è costituito da 812 versi, divisi in elegie di lunghezza diversa, dedicate ai singoli giorni di giugno, sesto mese dell’anno. L’opera è rimasta incompiuta.

[2] Storia della letteratura latina, vol. I pag. 557

[3] Sesto giorno della anomala settimana romana, contraddistinto dalla lettera F

[4]Dies Fortis Fortunae appellatus ab Servio Tullio rege, quod is fanum Fortis Fortunae secundum Tiberim extra urbem Romam dedicavit Iunio mense” (De lingua Latina VI, 17) - Giorno della Fors Fortuna fu chiamato dal re Servio Tullio, perché egli dedicò un tempio lungo il Tevere fuori dalla città di Roma nel mese di giugno.