Proemium Institutionis Oratoriae libri VI inter locos qui saepe leguntur non est. Immo forsitan Quintilianus omnino iam non legitur. In prisca Schola Magistrali loci de paedagogia legebantur, optimi quidem non solum argumentis sed etiam moribus. Quasdam paginas grammaticales difficiles etiam rhetoricae artis amantibus nemo legebat. Proemium libri VI est locus dignus qui bis legatur: pagina est humanitate pulcherrima.

Clarissimus ille magnus rhetoricae artis pretiosissimus professor Quintilianus graviter denuo fortuna adversa vulneratus est. Iam amatam mulierem, iam primum filium amiserat. 
Quot mulieres in antiqua Roma frustra Iunonem Lucinam invocantes moriebantur! Plurimae partu tenera adhuc aetate! Itemque quot pueri!

At consuetudo avita, forsitan in hereditatem a saeculo praeterito accepta, nos coegit ut praesertim verteremus locos Caesarianos de militibus castris copiis narrantes. Itaque perrare in scholis nostris de vita Romana legimus; tunc amores similes nostrorum, affectus familiares quos etiam nunc sentimus legissemus.

Quintilianus nuper alterum filium, decem annos natum, pulcherrimum optimumque (forsitan sicut omnes filios nostros putamus) amiserat. Omnibus virtutibus preaeditus, patrem superaturus patri videbatur.  Sed aliter dis visum est. Hinc dubitat Quintilianus: stilum ponere an opus inceptum perficere?

Ecce Quintiliani verba, adiecta versione italica.

Il proemio del libro VI dell’Institutio oratoria non è tra i passi di Quintiliano che si leggono normalmente. Anzi, forse Quintiliano come autore non si legge più. Nel vecchio Istituto Magistrale si leggevano i passi pedagogici, che restano di singolare modernità sul piano tecnico e nei precetti di comportamento. Certamente non si leggevano le pagine teoriche, difficili da digerire perfino per un amante della retorica.

Questo passo però merita di essere (ri)letto: è una delle pagine latine più toccanti sul piano umano. Il grande, famoso e ben retribuito insegnante di retorica è stato colpito duramente dalla sorte. Aveva perso l’amata moglie diciannovenne e poi il primo figlio.

Quante donne morivano giovani nell’antica Roma! Avevano un bell’invocare Iuno Lucina.  Di parto morivano giovanissime. Anche i bambini morivano in gran numero.

A causa di una tradizione consolidata, forse collegabile a un certo militarismo fascista, abbiamo tradotto innumerevoli brani che parlano di soldati, accampamenti, copiae copiarum, o elucubrazioni mitologiche subito dimenticate e così abbiamo perso contatto con il lato umano della civiltà latina. Affiorano quei sentimenti umani così simili ai nostri, che ci avvicinano gli antichi facendoci sentire i legami affettivi profondi che erano alla base della famiglia antica.

A Quintiliano era rimasto un figlio bellissimo e bravissimo, forse tutti pensiamo che lo siano i nostri figli; il padre lo vedeva come una promessa dell’eloquenza, era sicuro che lo avrebbe superato nella carriera e nella fama. Mentre era intento a comporre l’opera che gli avrebbe dato grande e meritata fama Quintiliano resta solo al mondo. Viene preso dal dubbio. Posare lo stilo e interrompere l’opera? Che senso ha la vita se si è rimasti soli, se anche l’ultima consolazione non c’è più?

Ecco queste pagine che Piero Pecchiura, nell’introduzione alle opere di Quintiliano (UTET 1979) ha definito “tra le più umane, commosse e commoventi di tutta la letteratura antica” dell’intera letteratura latina. Le propongo con una mia traduzione a fianco e un commento minimo. La traduzione è funzionale alla miglior fruizione del testo latino. La lectio, in formato mp3 sarà a breve scaricabile liberamente.

  1. Haec, Marcelle Vitori, ex tua voluntate maxime ingressus, tum si qua ex nobis ad iuvenes bonos pervenire posset utilitas, novissime paene etiam necessitate quadam officii delegati mihi sedulo laborabam, respiciens tamen illam curam meae voluptatis, quod filio, cuius eminens ingenium sollicitam quoque parentis diligentiam merebatur, hanc optimam partem relicturus hereditatis videbar, ut, si me, quod aecum et optabile fuit, fata intercepissent, praeceptore tamen patre uteretur.

 

Dopo aver iniziato quest’opera, o Marcello Vitore, soprattutto perché tu lo volevi e poi per fare qualcosa di utile per i giovani validi, ultimamente mi impegnavo con sollecitudine in questo incarico a me affidato, guardando però al piacere che più mi stava a cuore: mi sembrava di lasciare la parte migliore dell’eredità a mio figlio, le cui spiccate doti meritavano anche la solerte dedizione del padre. Se il destino mi avesse fatto morire, cosa giusta e desiderabile, avrebbe avuto comunque il padre come precettore.

 

  1. At me fortuna id agentem diebus ac noctibus festinantemque metu meae mortalitatis ita subito prostravit ut laboris mei fructus ad neminem minus quam ad me pertineret. Illum enim de quo summa conceperam, et in quo spem unicam senectutis reponebam, repetito vulnere orbitatis amisi.

    Invece la sorte, mentre notte e giorno lavoravo con lena per la paura di morire, inaspettatamente mi prostrò al punto che il frutto del mio lavoro non interessò a nessuno meno che a me. Quello che avevo concepito con le aspettative più alte, in cui riponevo l’unica speranza della mia vecchiaia, l’ho perso ancora togliendomi un figlio.
  • Quid nunc agam? aut quem ultra esse usum mei dis repugnantibus credam? Nam ita forte accidit ut eum quoque librum quem de causis corruptae eloquentiae emisi iam scribere adgressus ictu simili ferirer. Unum igitur optimum fuit, infaustum opus et quidquid hoc est in me infelicium litterarum super inmaturum funus consumpturis viscera mea flammis inicere neque hanc impiam vivacitatem novis insuper curis fatigare.

    Che fare ora ? cosa penso di fare ancora di me contro il volere degli dèi? Infatti casualmente fui ferito da un colpo simile anche quando iniziai a scrivere il libro “Le cause della corrotta eloquenza”, che poi ho pubblicato. L’unica cosa migliore da fare in questo lutto prematuro sarebbe stata gettare quest’opera infausta e qualunque sfortunata opera letteraria sulle fiamme che avrebbero divorato il mio cuore, senza sfinire con nuovi affanni questa mia empia sopravvivenza.
  1. Quis enim mihi bonus parens ignoscat si studere amplius possum, ac non oderit hanc animi mei firmitatem si quis in me alius usus vocis quam ut incusem deos superstes omnium meorum, nullam in terras despicere providentiam tester? - si non meo casu, cui tamen nihil obici nisi quod vivam potest, at illorum certe quos utique inmeritos mors acerba damnavit, erepta prius mihi matre eorundem, quae nondum expleto aetatis undevicesimo anno duos enixa filios, quamvis acerbissimis rapta fatis,(non) infelix decessit.

    Quale buon padre mi perdonerebbe se riesco a continuare a lavorare e non odierebbe questa mia pervicacia se facessi della voce un uso diverso dall’accusare gli dèi perché sono sopravvissuto a tutti i miei e testimoniare che non esiste alcuna provvidenza al mondo? se non per la mia vicenda - alla quale però si può solo obiettare che sono ancora vivo - per quelli che sono stati prematuramente condannati a morte: mi era stata portata via la loro madre, che non ancora diciannovenne aveva partorito due bambini e non era stata sfortunata anche se rapita da un destino crudele.
  2. Ego vel hoc uno malo sic eram adflictus ut me iam nulla fortuna posset efficere felicem. Nam cum, omni virtute quae in feminas cadit functa, insanabilem attulit marito dolorem, tum aetate tam puellari, praesertim meae comparata, potest et ipsa numerari inter vulnera orbitatis.

    Io da questo solo male ero stato così colpito che ormai nessuna sorte mi avrebbe potuto rendere felice. Non solo ha recato al marito un dolore insanabile, perché aveva tutte le virtù che può avere una donna, ma può essere essa stessa calcolata come una figlia perduta, data la sua giovane età, paragonata soprattutto alla mia.
  3. Liberis tamen superstitibus et - quod nefas erat sed optabat ipsa - me salvo, maximos cruciatus praecipiti via effugit. Mihi filius minor quintum egressus annum prior alterum ex duobus eruit lumen.

    Ma con i figli superstiti e - cosa ingiusta, ma lei lo avrebbe voluto - la mia sopravvivenza, è scampata a terribili sofferenze per la via più breve. Il mio primo figlio appena compiuti i cinque anni mi portò via una luce dei miei occhi.
  • Non sum ambitiosus in malis nec augere lacrimarum causas volo, utinamque esset ratio minuendi: sed dissimulare qui possum quid ille gratiae in vultu, quid iucunditatis in sermone, quos ingenii igniculos, quam substantiam placidae et (quod scio vix posse credi) iam tum altae mentis ostenderit: qualis amorem quicumque alienus infans mereretur.

    Non cerco fama nelle sciagure e non voglio aumentare i motivi di pianto (ci fosse un modo per diminuirli!), ma come posso non parlare del suo viso grazioso, del suo dolce modo di parlare, delle sue fiammelle di intelligenza di quale autentico pensiero sereno (so che si fa fatica a crederlo) e profondo? Qualunque bambino di un altro quale amore avrebbe meritato!
  • Illud vero insidiantis quo me validius cruciaret fortunae fuit, ut ille mihi blandissimus me suis nutricibus, me aviae educanti, me omnibus qui sollicitare illas aetates solent anteferret.

    La sorte in agguato, per farmi ancora più male, fece in modo che quella dolcissima creatura preferisse me alle sue nutrici, alla nonna che lo cresceva, a tutti quelli che di solito i bambini preferiscono.
  1. Quapropter illi dolori quem ex matre optima atque omnem laudem supergressa paucos ante menses ceperam gratulor. Minus enim est quod flendum meo nomine quam quod illius gaudendum est. Una post haec Quintiliani mei spe ac voluptate nitebar, et poterat sufficere solacio.

    Perciò mi congratulo con quel dolore che avevo ricevuto pochi mesi prima dall’ottima e insuperabile madre, perché c’è meno pianto per me che gioia per lei. Dopo questi lutti riponevo ogni speranza e conforto nel mio Quintiliano e questa consolazione sarebbe bastata.
  2. Non enim flosculos, sicut prior, sed iam decimum aetatis ingressus annum certos ac deformatos fructus ostenderat. Iuro per mala mea, per infelicem conscientiam, per illos Manes, numina mei doloris, has me in illo vidisse virtutes, non ingenii modo ad percipiendas disciplinas, quo nihil praestantius cognovi plurima expertus, studiique iam tum non coacti (sciunt praeceptores), sed probitatis pietatis humanitatis liberalitatis, ut prorsus posset hinc esse tanti fulminis metus, quod observatum fere est celerius occidere festinatam maturitatem, et esse nescio quam quae spes tantas decerpat invidiam, ne videlicet ultra quam homini datum est nostra provehantur.

    Non aveva mostrato solo fiorellini, come il primo, ma, entrato nel decimo anno d’età, dei frutti belli maturi. Giuro sulle mie sventure, sul mio dolore cosciente, per i Mani, dèi del mio dolore, che ho visto in lui non solo qualità mentali mai viste nella mia esperienza in altri così forti per capire queste discipline, e qualità di impegno spontaneo già allora (lo sanno i suoi maestri), ma anche di onestà, ubbidienza, umanità e generosità, tanto che da questi segni poteva forse provenire la paura di un fulmine così devastante; perché in genere si osserva che una veloce maturità tramonta abbastanza in fretta e esiste una non so quale malasorte che distrugge le migliori speranze, sicuramente perché la sorte umana non oltrepassi il limite dato all’uomo.
  3. Etiam illa fortuita aderant omnia, vocis iucunditas claritasque, oris suavitas et in utracumque lingua, tamquam ad eam demum natus esset, expressa proprietas omnium litterarum. Sed hae spes adhuc: illa matura, constantia, gravitas, contra dolores etiam ac metus robur. Nam quo ille animo, qua medicorum admiratione mensum octo valetudinem tulit! Ut me in supremis consolatus est! Quam etiam deficiens iamque non noster ipsum illum alienatae mentis errorem circa scholas, litteras habuit!

Aveva anche tutte le qualità che può dare la sorte : una voce chiara e piacevole, una bella pronuncia delle due lingue, come se fosse nato per queste, e proprietà di espressione letteraria. E queste erano ancora speranze: aveva maturità, sicurezza, serietà e forza contro i dolori e le paure. Con quale coraggio, con quale ammirazione dei medici sopportò otto mesi di malattia! Come mi consolò alla fine! E quando ormai non mi apparteneva più e si stava spegnendo aveva il pensiero della sua mente in delirio sempre allo studio e alla scuola!

  • Tuosne ego, o meae spes inanes, labentis oculos, tuum fugientem spiritum vidi? tuum corpus frigidum exsangue complexus, animam recipere auramque communem haurire amplius potui, dignus his cruciatibus quos fero, dignus his cogitationibus?

    O vana mia speranza, io ho visto i tuoi occhi spegnersi, la tua anima fuggire? E dopo aver abbracciato il tuo freddo corpo esangue, mi sono potuto riprendere respirando l’aria comune? Io che merito le sofferenze che provo e questi penosi pensieri.
  • Tene consulari nuper adoptione ad omnium spes honorum propius admotum, te avunculo praetori generum destinatum, te †… avitae eloquentiae candidatum, superstes parens tantum † poenas: et si non cupido lucis, certe patientia vindicet te reliqua mea aetate; nam frustra mala omnia ad crimen fortunae relegamus. Nemo nisi sua culpa diu dolet.

    Tu che eri stato appena adottato da un console e avviato a una carriera brillante, tu destinato come genero allo zio pretore, tu candidato al trono avito dell’eloquenza al padre hai inflitto questa pena; possa vendicarti non il mio desiderio di vivere, ma il dolore che sopporterò per il resto della vita. Invano riconduciamo tutti i nostri mali alla sorte. Nessuno soffre a lungo se non per colpa sua.
  • Sed vivimus et aliqua vivendi ratio quaerenda est, credendumque doctissimis hominibus, qui unicum adversorum solacium litteras putaverunt. Si quando tamen ita resederit praesens impetus ut aliqua tot luctibus alia cogitatio inseri possit, non iniuste petierim morae veniam. Quis enim dilata studia miretur quae potius non abrupta esse mirandum est?

Sono vivo e devo cercare una ragione di vita, devo credere a quegli uomini sapientissimi che ritengono le lettere l’unica consolazione per le avversità. Se un giorno però il colpo del destino presente mi avrà dato tregua, in modo che si possa inserire un altro pensiero in questi lutti, giustamente chiederei scusa per il ritardo. Chi si meraviglierebbe per il ritardo in studi che sarebbe stato stupefacente che non fossero piuttosto stati interrotti?

  1. tum si qua fuerint minus effecta iis quae levius adhuc adflicti coeperamus, imperitanti fortunae remittantur, quae si quid mediocrium alioqui in nostro ingenio virium fuit, ut non extinxerit, debilitavit tamen. Sed vel propter hoc nos contumacius erigamus, quod illam ut perferre nobis difficile est, ita facile contemnere. Nihil enim sibi adversus me reliquit, et infelicem quidem sed certissimam tamen attulit mihi ex his malis securitatem.

    Se poi alcune parti saranno meno compiute rispetto a quelle che avevo cominciato a scrivere quando ero meno afflitto, questo sia attribuito alla potenza della sorte che non ha estinto le energie che avevo nella mia mente, ma le ha indebolite. Ma per questo alziamoci con maggior coraggio, perché come è difficile per me sopportare il destino così è facile disprezzarlo. Non ha più potere su di me e con queste sciagure mi ha arrecato una sicurezza certissima, per quanto infelice.
  • Boni autem consulere nostrum laborem vel propter hoc aequum est, quod in nullum iam proprium usum perseveramus, sed omnis haec cura alienas utilitates, si modo quid utile scribi, spectat. Nos miseri sicut facultates patrimonii nostri, ita hoc opus aliis praeparabamus, aliis relinquemus.

    È giusto giudicare con favore la mia fatica se non altro per perché la mando avanti non per mio interesse personale, ma ogni mia preoccupazione guarda all’interesse degli altri, ammesso che sia utile scrivere qualcosa. Io, infelice, lascerò quest’opera, come tutte le mie cose, a persone diverse rispetto a quelle per cui avremmo voluto.