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La divinità venerata dai Romani aveva delle caratteristiche originariamente agricole. Si può dedurre da numerose testimonianze. Possiamo fare riferimento a due testi, sicuramente di età arcaica.
- Il carmen Arvale recitato dai fratres Arvales, è un testo antichissimo che è pervenuto a noi da una trascrizione del III secolo. Era recitato nel secondo giorno degli Ambarvalia, feste dedicate alla fertilità dei campi. Anche il nome dei sacerdoti e delle feste contengono la radice del sostantivo neutro arva, arvorum (campi arati)[1]. In questo carmen più volte è ripetuto il nome del dio nelle diverse forme in cui era conosciuto e invocato dai Romani e dai popoli italici: Mars… Marmar.
- Il cap. 141 del De agri cultura di Catone, § 2 (II sec. A.C.) in cui si trova questa preghiera a Marte
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Marzo, il primo mese del calendario romano antico
Per un po’ di tempo marzo fu il primo mese dell’anno nel calendario primitivo che gli antichi romani avevano diviso in dieci mesi; rimase in quella posizione fino al II secolo a.C., quando fu “retrocesso“ al terzo posto, dove si trova tuttora.
Il nome del primo mese dell’anno deriva da [mensis] martius, (< Mars, Martis) in onore del mitico padre di Romolo, fondatore della Città, per ricordare la bellicosità di un popolo che avrebbe creato una delle più grandi civiltà del tempo antico anche grazie al suo potente e organizzato esercito.
Il dio italico Marte è generalmente identificato con il dio greco Ares, figlio di Zeus ed Era, dio della guerra per gli antichi greci. La sovrapposizione però non è perfetta, perché il dio greco era un po’ diverso.
Per comprendere meglio le caratteristiche di questa divinità greca andiamo a rileggere qualche testo antico.
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Conversazione sulla storia del calendario romano e sull’etimologia delle parole che scandiscono il tempo della nostra vita quotidiana - Conferenza per il Gruppo Archeologico Milanese.
All’inizio dell’anno siamo tutti desiderosi di sapere come andranno le cose, vorremmo organizzarci per affrontare il futuro prossimo, incerto come tutte le cose umane, fioriscono le previsioni astrologiche alle quali non crediamo e che però leggiamo. Più in generale in tutte le civiltà evolute la vita di una comunità si doveva organizzare, doveva trovare dei punti di riferimento nel tempo: nell’immediato, quindi nel giorno, e poi in periodi più lunghi. Oggi scriviamo gli impegni sulle agende (parola latina!) magari quelle virtuali che Google chiama calendari. Daremo un’occhiata curiosa al nostro calendario e alle parole derivate dal latino, che hanno una storia da raccontare.
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Il Sor Carlo (così nomina se stesso) è stato uno dei più grandi poeti dialettali italiani; scriveva in dialetto milanese, perché ai suoi tempi lo parlavano tutti: all’inizio del XIX secolo era la lingua usata anche dai più grandi intellettuali milanesi, Alessandro Manzoni compreso.
Nonostante l’importanza della città di Milano nella storia d’Italia di quel tempo, la sua lingua non andò oltre i confini cittadini, né si propose come lingua nazionale: rimase lingua popolare, con la sua concretezza bonariamente dissacrante.
La grandezza di Carlo Porta è unanimemente riconosciuta, ma l’uso del dialetto[1], condannò la sua opera a una circolazione limitata, destinata a una sempre più ristretta cerchia di lettori nell’Italia prossima all’unificazione anche linguistica. La produzione letteraria di Carlo Porta si colloca all’inizio dell’Ottocento: la città si libera dalla dominazione francese e torna sotto quella austriaca.
In questa sede ci limiteremo a indagare su un aspetto particolare della poesia di Porta: la lingua latina nelle sue poesie. Buona lettura.
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La colonna infame di Monza
Qualche anno prima della colonna infame milanese (1630), a Monza, nel quartiere dove sorgevano la chiesa di Santa Margherita (oggi San Maurizio) con l’annesso convento e la casa di Giovanni Paolo degli Osii (lo sciagurato Egidio nel romanzo manzoniano), fu eretta una colonna infame, per ricordare i delitti da lui commessi insieme a Virginia de Leyva (Gertrude nel Romanzo), la celebre Monaca di Monza.
Lo storico monzese A. F. Frisi ci racconta che l’Osio “soggiacque alla confisca de’ suoi beni e per ordine del Senato di Milano venne demolita nel 1608 la di lui Casa situata sulla piazza del detto Monastero, con l’essersi eretta nell’area di detta Casa una colonna colla statua della Giustizia in memoria del fatto[1]”.
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