L’etica degli antichi (parte terza)

SOCRATE

È nel pensiero di Socrate che va situata la svolta decisiva attraverso la quale il tema dell’anima esce dal contesto religioso, proprio di orfismo e pitagorismo, per diventare, attraverso un processo di individualizzazione e moralizzazione, il fulcro del discorso morale.

Il tema dell’anima è portato da Socrate all’interno della città; possiamo vedere in questo spostamento una laicizzazione, che lo sottrae al contesto iniziatico delle sette religiose, e il tentativo di una mediazione difficile tra due linee di pensiero, quella della virtù politica del buon cittadino che si riconosce nelle leggi e quella della salvezza dell’anima che ha per fine una dimensione ultraterrena.

Non esiste secondo Socrate la pluralità delle virtù, presente sia nella tradizione omerica sia nella cultura della città. L’areté può ancora essere concepita come un’eccellenza, tuttavia essa è condensata e unificata in una sola figura: la scienza (epistéme). Si tratta di una capacità razionale di conoscere il bene e il male e quindi  di orientare il comportamento, scegliere il meglio e evitare il peggio

 “Nessuno commette volontariamente colpe, né compie volontariamente azioni vergognose e malvage” (in Platone, Protagora). Tutti desideriamo la felicità; scegliere per il male e l’ingiustizia significherà allora scegliere l’infelicità, compiere un errore intellettuale.

La cura socratica dell’anima può solo significare che dentro di noi c’è un giudice che valuta la nostra condotta con severità e giustizia, al quale non si può sfuggire. Esso condanna all’inquietudine e all’infelicità anche chi è premiato dall’esteriorità del corpo e della città, o viceversa premia con una incrollabile, serena felicità anche chi appare duramente colpito in quel livello esteriore.

Platone, Critone

(parla Socrate) “In nessun caso diciamo che volontariamente si deve commettere ingiustizia, oppure che in alcun caso si può e in altro non si può? O diciamo addirittura che il commettere ingiustizia (adikein) non è mai né buono né bello, come già più volte nel passato riconoscemmo?...la cosa sta così come si diceva allora, sia che i più ne convengano sia che non ne convengano…che, insomma, nonostante tutto, il fare ingiustizia è, per chi fa ingiustizia, cosa brutta e turpe in ogni caso?...dunque né si deve rendere ingiustizia né far male ad alcuno degli uomini, neanche chi abbia qualsivoglia male patito da costoro…io so bene che ad alcuni pochi soltanto questi principi sembrano e sembreranno giusti.”

 

Platone, Repubblica, libro X:

“Ecco ciò che occorre pensare sul conto dell’uomo giusto, anche se cade nella povertà, nelle malattie o in qualche altra sventura apparente: tutto ciò si risolverà in bene per lui, sia da vivo sia da morto. Infatti gli dei non abbandonano mai chi si sforza di diventare giusto e simile alla divinità mediante l’esercizio della virtù, per quanto è dato a un uomo”

Tralasciamo, in questo breve schizzo, la  complessità del tema morale, intrecciato a quello politico e alla teoria delle idee, nell’intera opera di Platone; basti qui l’indicazione generale del suo “socratismo”.

 

Per affrontare la riflessione aristotelica ci affidiamo all’analisi di Carlo Natali.

Carlo Natali, Etica, in Aristotele, a cura di Enrico Berti, 1997 (passi scelti)

“La struttura dei trattati etici aristotelici ci mostra… il modo particolare con cui Aristotele imposta la problematica etica…Platone, nella Repubblica, dedica l’inizio del dialogo ad una confutazione del relativismo etico, discutendo la tesi di Trasimaco [il quale aveva affermato che il giusto, dikaion, non è altro che l’interesse del più forte]…questo mostra che Platone ritiene necessario criticare, in primo luogo, le posizioni teoriche che minacciavano di rendere irrilevante la problematica etica. Solo dopo questa confutazione egli inizia a descrivere la teoria della giustizia, che si fonda sul riconoscimento dell’ordine cosmico basato sulla realtà trascendente delle idee.

L’approccio di Aristotele è diverso, si basa su un dato di fatto e su un principio metodologico. Il dato di fatto, a suo parere evidente, è la struttura finalistica dell’agire umano…Il principio metodologico consiste nell’idea che l’etica è una disciplina indipendente dalla filosofia prima [ cioè non trae i suoi principi dalla metafisica, dalla scienza intorno all’essere]

Uno dei problemi maggiori per il lettore delle Etiche di Aristotele è dato dalla difficoltà di intendere in modo completamente esatto il significato dei termini impiegati da Aristotele. La maggior parte della terminologia filosofica greca venne tradotta in latino a partire dal I secolo a. C. da Cicerone, Seneca, Lucrezio, Quintiliano e altri…così…eudaimonia divenne felicitas, areté divenne virtus, kakia divenne vitium, psyché divenne animus/anima… e tali parole…hanno subito una loro ulteriore evoluzione …allontanandosi sempre più dal significato dei termini greci antichi. Un lettore di oggi che si imbatta nella definizione aristotelica del bene supremo, secondo cui esso è la felicità e consiste in “un’attività dell’anima secondo virtù” in base all’uso corrente dei termini sarebbe legittimato a comprendere che il bene supremo secondo Aristotele è uno “stato di pieno appagamento e contentezza”, e che tale contentezza, in modo contrario all’esperienza comune, dovrebbe derivare da una serie di comportamenti di “un principio immortale insito in noi, opposto al corpo” e secondo “una disposizione d’animo volta al bene e all’autolimitazione, in particolare nella sfera dei desideri fisici” [secondo l’uso comune della lingua italiana, v.ad es. Dizionario della lingua italiana di G. devoto e G. Oli, Firenze 1973]. In altre parole, in base all’uso corrente dei termini, la felicità per Aristotele risulterebbe essere una sorta di piacere dell’autocontrollo, il che è quasi esattamente l’opposto di ciò che Aristotele voleva dire. Infatti Aristotele … intendeva dire che il bene umano consiste nella piena realizzazione di se stessi, e che tale realizzazione consiste nel perfetto funzionamento della parte razionale della nostra mente…si tratta di uno stato che oggi potremmo definire di autorealizzazione, come nell’espressione “una vita realizzata”. Intendiamo con ciò l’operare in modo opportuno, il riuscire bene nella propria opera.

…il punto di partenza dell’Etica nicomachea di Aristotele è un serie di opinioni e di dati evidenti che mostrano come vi sia un finalismo universale nel campo dell’azione. “Ogni arte e ogni indagine, come pure ogni azione e scelta, si pensa che persegua un qualche bene; e per questo si è definito, in modo appropriato, il bene come ciò a cui tutto tende. Ma appare evidente una certa differenza tra i fini” …i fini si dispongono in serie gerarchiche, in cui alcuni sono subordinati ad altri, più elevati…l’esistenza di una gerarchia di fini necessariamente suppone che vi siano dei fini ultimi…per comune ammissione…la “felicità”. La felicità è per opinione comune un bios, un modo di vivere (e non, si badi, il risultato di un modo di vivere), e un bios è una organizzazione generale della propria esistenza attorno ad un’attività che ha il ruolo principale, e subordina a sé le altre…L’attività principale non è certo l’unica…la felicità è un modo di vivere e di agire organizzato intorno ad un’attività principale, che è il fine della vita e che, per essere un vero fine, non deve servire a null’altro, ma deve rendere la vita completa e perfetta…l’attività propria dell’uomo in quanto tale è l’attività della sua parte razionale, secondo areté, virtù. Quindi la felicità consiste in una vita attiva…consiste nella prassi e nell’uso delle proprie capacità…questo elemento di attività caratterizza la nozione aristotelica di felicità in modo decisamente praticistico.

“per natura le realtà di quel tipo [naturali] sono distrutte dall’eccesso e dal difetto…come si vede anche nel caso del vigore fisico e in quello della salute, infatti gli esercizi eccessivi e quelli troppo scarsi distruggono il vigore; allo stesso modo avere troppi cibi e bevande, o troppo pochi, distrugge la salute, mentre la giusta misura la produce, la aumenta e la difende. Ora le cose stanno così anche per la temperanza, il coraggio e le altre virtù (etiche)…quindi la temperanza e il coraggio sono distrutti dall’eccesso e dal difetto, ma sono preservati dalla medietà “ (Etica Eudemia, II 2)

Poche dottrine di Aristotele sono state così maltrattate come questa, in cui si è voluta vedere l’espressione del buon senso più filisteo…solo negli ultimi anni, con la rinascita dell’interesse per l’etica della virtù, la critica si è mostrata più benigna. La teoria del giusto mezzo articola e specifica la concezione della felicità come “buon funzionamento di un essere umano” estendendola non solo al funzionamento della razionalità, ma anche alla sfera dei sentimenti e delle azioni…la teoria del giusto mezzo è una teoria dell’equilibrio del carattere e dell’agire: l’uomo virtuoso per Aristotele è colui che non ha conflitti interni, e non deve vincere se stesso per agire in modo giusto o generoso.

Uno dei maggiori contributi di Aristotele alla storia dell’etica è la teoria della phronesis. ( saggezza pratica, distinta da sophia, sapienza teorica) Con essa Aristotele supera l’intellettualismo socratico, che aveva influenzato anche Platone, e impone la distinzione tra la saggezza e il sapere teorico. Il sapere teorico procede in modo del tutto autonomo, indipendente dalle emozioni, secondo una sua logica, e non può determinare in alcun modo l’azione; il sapere pratico, al contrario, è mescolanza di intellezione e desiderio, e determina l’agire. Attraverso di esso anche il mondo delle emozioni e delle passioni assume una sua razionalità e può essere indagato dal filosofo morale.”

3 - Continua


Glossario

ἐπιστήμη (epistéme) la “scienza” (cfr. IT epistemologia)
ἀδικεῖν (adikein) commettere ingiustizia
δίκαιον (díkaion) ciò che è “giusto”
εὐδαιμονία (eudaimonía) “felicità / serenità”
κακία (kakía) “malvagità / cattiveria)
ψυχή (psyché) “anima / spirito”
φρόνησις  (frónesis) saggezza pratica
σοφία (sofía) sapienza teorica