Alla sesta lezione del corso di Letteratura e lingua latina abbiamo parlato di Stazio, l’autore noto per la Tebaide, grande poema epico mitologico, che lo ha consacrato alla fama, anche grazie al XXI canto del Purgatorio dantesco di cui è protagonista.

Abbiamo poche notizie della vita di Publio Papinio Stazio, vissuto nella seconda metà del secolo I d.C.: era nato a Napoli, aveva un padre letterato, la sua arte lo aveva portato a Roma, dove aveva raggiunto grande fama nelle letture pubbliche e nelle gare poetiche. Lo immaginiamo mentre conquista gli uditori con la sua retorica incline a suscitare orrore; mi piace immaginarlo mentre recita il suo poema con la teatralità di un napoletano autentico, che ti conquista con il suo senso innato per la drammatizzazione e la capacità di coinvolgimento.

Fantasia di un appassionato di letteratura classica? forse, ma mi piace proporre alcuni versi tratti dalle Silvae e un commento di un grande latinista.

La poesia che propongo fu composta forse dopo la mancata vittoria nei Ludi Capitolini, per persuadere la moglie a trasferirsi a Napoli, la sua indimenticata città natale.

La poesia riporta il generico titolo di Ad uxorem (III, 5): è l’ultima del terzo libro ed è composta in esametri. Questo è l’incipit (vv. 1-14):

Quid mihi maesta die, sociis quid noctibus, uxor,

anxia pervigili ducis suspiria cura?

Non metuo ne laesa fides aut pectore in isto

alter amor; nullis in te datur ire sagittis

(audiat infesto licet hoc Rhamnusia[1] vultu),       

non datur. Et si egomet patrio de litore raptus

quattuor emeritis per bella, per aequora lustris

errarem, tu mille procos intacta fugares,

non intersectas commenta retexere telas,

sed sine fraude palam, thalamosque armata negasses.

Dic tamen, unde alta mihi fronte et nubila vultus?

Anne quod Euboicos fessus remeare penates[2]

auguror et patria senium componere terra?

Cur hoc triste tibi?...

Moglie, perché triste di giorno e nelle notti trascorse insieme sospiri in veglia affannosa? Non temo un tradimento o un altro amore in questo tuo cuore; nessun dardo può entrare in te (Nemesi ascolti pure col suo volto ostile), non può. E se io, dal patrio lido rapito, vagassi per quattro lustri interi tra guerre e mari, tu metteresti in fuga mille proci senza farti toccare, senza finger di ritessere tele intrecciate, ma apertamente, senza inganni, con le armi negheresti il tuo talamo. Dimmi allora, perché il tuo viso crucciato e annuvolato? Forse perché io, stanco, mi auguro di tornare alla patria Cuma e terminare gli ultimi anni nella terra natale? Perché questa è una cosa triste per te?...

 

Abile questa adulazione del poeta che paragona la moglie a Penelope. Più avanti l’arte della persuasione di Stazio fa ricorso alla celebrazione delle bellezze di Napoli (vv.81 – 112)

Has ego te sedes (nam nec mihi barbara Thrace

nec Libye natale solum) transferre laboro,

quas et mollis hiems et frigida temperat aestas,

quas imbelle fretum torpentibus adluit undis.

Pax secura locis et desidis otia vitae,         85

et numquam turbata quies somnique peracti.

nulla foro rabies aut strictae in iurgia leges:

morum iura viris solum et sine fascibus[3] aequum.

quid nunc magnificas species cultusque locorum

templaque et innumeris spatia interstincta columnis,

et geminam molem nudi tectique theatri[4]

et Capitolinis quinquennia proxima lustris,

quid laudem litus [5] libertatemque Menandri,

quam Romanus honos et Graia licentia miscent?

nec desunt variae circa oblectamina vitae:          95

sive vaporiferas, blandissima litora, Baias,

enthea[6] fatidicae seu visere tecta Sibyllae

dulce sit Iliacoque iugum memorabile remo[7],

seu tibi Bacchei vineta madentia Gauri[8]

Teleboumque domos[9], trepidis ubi dulcia nautis,         

lumina noctivagae tollit Pharus aemula lunae,

caraque non molli iuga Surrentina Lyaeo[10],

quae meus ante alios habitator Pollius[11] auget,

Dimidiaeque lacus[12] medicos Stabiasque renatas[13].

 

Mille tibi nostrae referam telluris amores?       105

Sed satis hoc, coniunx, satis est dixisse: creavit

me tibi, me socium longos astrinxit in annos.

nonne haec amborum genetrix altrixque videri

digna? sed ingratus qui plura adnecto tuisque

moribus indubito: venies, carissima coniunx, 

praeveniesque etiam. Sine me tibi ductor aquarum

Thybris et armiferi sordebunt tecta Quirini.     112

A questa mia città (la mia terra natale non è la Libia, né la barbara Tracia) io t’invito a trasferirti, dove è mite l’inverno e fresca l’estate: qui con le sonnolente sue onde fluttua un mare innocuo. C’è una pace sicura, una quiete mai turbata e si dorme fino a tarda ora! Non ci sono tribunali arrabbiati e leggi impugnate per fare rissa: gli uomini hanno per legge la costumatezza e l’equità è senza fasci. E che vedute magnifiche! Campagne coltivate, templi spaziosi intervallati da tante colonne! la mole gemella del circo e del teatro, i giochi quinquennali, pari a quelli del Campidoglio! Come non lodare le risate delle commedie di Menandro, che mescolano il sussiego romano e la sfrontatezza dei Greci? E non mancano i diversi piaceri della vita: potresti visitare la vaporosa Baia, spiaggia dolcissima, l’invasato tetto della Sibilla, il capo Miseno ricordato dal remo troiano, i ricchi vigneti del bacchico Gauro, e Capri, là dove ai trepidanti nocchieri lucente come la luna che vaga di notte splende emulo il faro, e i colli di Sorrento, cari al forte Lièo, che il mio Pollio dalla sua casa come nessuno fa crescere, e le sorgenti termali di Dimidia e Stabia risorta.

 

 Ti racconterò i mille incanti della mia terra?
Basta, basta averti detto questo, moglie mia: per te ha messo al mondo me, ha stretto te a me come compagno per lunghi anni. Non ti pare questa terra degna di essere madre e nutrice di entrambi? Sono io ingrato che aggiungo parole dubito dei tuoi costumi: tu verrai carissima moglie, anzi, mi precederai. Senza di me il signore dei fiumi, il Tevere, e la rocca del guerriero Quirino ti sembreranno brutti.

 

“Qui è Napoli coi sogni e gl’incantesimi suoi; è Napoli di Pulcinella e di Piedigrotta, dove sono ancora tanto piene di letizia le mense e le serenate di passione.” Così commenta il passo Concetto Marchesi nella sua Storia della Letteratura Latina.

Noi siamo convinti che la moglie di Stazio non avrà saputo dire di no alle parole appassionate e amorose del marito poeta.

26 marzo 2017

 

[1] Rhamnusia è qui detta la dea della vendetta Nemesi, punitrice dei superbi, da un tempietto a lei dedicato nel demo attico di Ramnunte.

[2] Euboicos… penates: Cuma di Eubea era la madre patria della italica città di Cuma, vicina a Napoli.

[3] I fasci sono simbolo dell’autorità.

[4] Il teatro nudo (all’aperto) è il circo, quello coperto è il teatro vero e proprio.

[5] I codici riportano questa parola senza senso.

[6] Grecismo: “invasati dal Dio”.

[7] Un remo conficcato nel terreno indicava il luogo dove era stato sepolto Miseno, pilota della nave di Enea.

[8] Monte tra Cuma e Pozzuoli.

[9] Per “case dei Teleboi” Stazio intende Capri; il dettaglio erudito è tipico della poesia ellenistica. I Teleboi, popolo dell’Acarnania, colonizzarono l’isola di Capri.

[10] Epiteto di Bacco, che scioglie gli affanni con il vino.

[11] Amico di Stazio, possessore di una villa a Sorrento.

[12] Fonte d’acqua curativa

[13] Risorta dopo l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., quando fu distrutta Pompei.